Il deficit di cultura ecologica

Il deficit di cultura ecologica
Testo di Cesare Lasen

Durante l’incontro ai soci del Rotary Club di Belluno che ha avuto luogo il 10 marzo 2022 intitolato “Le vere risorse del pianeta. Natura e biodiversità” è stata discussa una vasta gamma di questioni. I temi trattati nella serata richiederebbero ciascuno una scheda di approfondimento e sviluppo, come per esempio: equilibri ecosistemici, specie in estinzione, consumo di suolo, interventi di rinaturalizzazione, modelli di sviluppo, specificità del territorio montano e in genere crisi ecologica e cambiamento climatico. Il presente testo sarà una riflessione che si riferisce ai temi di quell’evento.

Questa è l’introduzione del 29 marzo 2022 dell’articolo di Maria Grazia Midulla sul giornale digitale di Italia Libera: “Il sesto rapporto di valutazione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che riassume le ultime ricerche scientifiche sugli impatti dei cambiamenti climatici, dipinge un quadro preoccupante sui rischi in rapida crescita. Già oggi si fanno sentire in tutto il mondo, e riguardano i danni diffusi alla salute umana e all’equilibrio ecologico: insicurezza alimentare e idrica e disastri meteorologici estremi”.

Conviene fermarsi qui e provare a invitare tutti a una riflessione su quello che considero il minimo comune denominatore di tutta questa situazione che richiede ormai misure urgenti ed efficaci e non limitarsi a rinvii e transizioni. Il titolo: IL DEFICIT DI CULTURA ECOLOGICA.

Il significato di ecologia, che ha la stessa radice di etica e di economia, non necessita di approfondimenti. È la scienza che studia le relazioni tra il genere umano e l’ambiente, e ormai ha assunto significati vari e molto più estesi diventando un termine molto sfruttato. Isole ecologiche e operatori ecologici riguardano le fasi di raccolta delle immondizie, ad esempio. I diversi livelli di organizzazione della vita sul pianeta possono essere focalizzati sul ruolo centrale assunto dalla specie che rappresenta la frontiera tra il campo di applicazione della biologia (cellula, tessuti, organi, …) e appunto dell’ecologia (popolazioni, comunità, ecosistemi, fino all’intera biosfera). 

Nel tempo la biologia ha compiuto grandi progressi contribuendo a migliorare le nostre possibilità di difesa rispetto a malattie insidiose e spesso letali. Negli ambiti di applicazione delle scienze ecologiche, la ricerca ha privilegiato raccolta ed elaborazione di dati acquisiti con strumentazioni automatiche e metodi fondati su ipotesi di variazione dei fattori che non possono prevedere i risultati di interazioni complesse. Si è così trascurato, o in ogni caso sottovalutato, l’importanza di studiare adeguatamente il territorio ritenendo che le operazioni di raccolta dati in campagna fossero onerose. Le valutazioni ecologiche, infatti, sono il risultato di interrelazioni complesse, non lineari. In particolare gli studi vegetazionali rappresentano la risultante delle variazioni dei fattori ecologici del clima e del suolo. I modelli matematici e statistici che si sperimentano per simulare gli scenari futuri (si pensi al cambiamento climatico) risultano poco efficaci nel rappresentare le variazioni a livello della funzionalità degli ecosistemi.

Ciò che si constata, per diretta esperienza, è la difficoltà che rivelano molti tecnici e professionisti (ingegneri, architetti, gli stessi forestali) a comprendere la portata dei fenomeni ecologici complessi che portano a modifiche ecosistemiche che diminuiscono notevolmente la resilienza degli habitat naturali, tra l’altro sempre più insidiati da aggressioni che portano a consumo di suolo, alla diminuzione di superficie agraria utile, agli effetti dell’inquinamento diffuso.

 

In altri termini la vera “cultura ecologica”, vista come capacità di leggere i fattori ambientali e i risultati delle loro variazioni e compensazioni, è relegata a ruoli molto secondari. Non sorprende, quindi, che le decisioni politiche e la definizione delle priorità, assecondino argomenti alla moda e fattori emotivi, come se una patina di “verde” conferisca dignità ecologica a scelte che in realtà vanno talvolta in controtendenza rispetto alle vere esigenze ambientali.

La priorità assoluta resta il contrasto alla perdita di biodiversità, possibile solo incrementando la percentuale di habitat naturali e prossimo-naturali e favorendo l’agricoltura estensiva anziché gli allevamenti e le produzioni intensive.

Consigli

Il 2022 è stato proclamato dall’Onu «Anno internazionale dello sviluppo sostenibile delle montagne», quindi potrebbe essere utile richiamare anche proposte da tradurre su scala locale, da comprendere a livello regionale e del nordest d’Italia. 

  • Il Veneto in particolare è al primo posto per il consumo di suolo. In pianura servirebbero iniziative di rinaturalizzazione e la ricostituzione di un minimo di rete ecologica. Si parla di boschi planiziali, ma finora, sulla carta.
  • In Alto Adige va contenuta come altrove l’agricoltura intensiva e fatta chiarezza tra valori paesaggistici e naturalistici. C’è una marcata differenza tra aree protette e zone esterne.
  • In Trentino si punta molto sul marketing «verde». Non è tutto oro quello che luccica. Alle province autonome va riconosciuta attenzione verso la montagna e anche disposizioni normative atte a favorire i residenti e un utilizzo delle risorse che rispetti determinati equilibri anche se persistono progetti che non possono essere definiti «green».
  • In FVG ci sono ancora aree pianeggianti a discreto livello di naturalità e una montagna in prevalente condizione di abbandono, ma non mancano esempi virtuosi.
  • Ritornare a falciare i prati, specialmente in prossimità delle frazioni montane
  • Proteggere e conservare i boschi non significa necessariamente abbandono, ma neppure via libera alle motoseghe. Serve una nuova cultura forestale.
  • Sorgenti, torbiere, zone umide. Rispetto, censimento, riqualificazione. Non servono nuove centraline. In pianura servono sistemi irrigui che utilizzino meno acqua.
  • Attività turistiche: Non riportare in montagna le caratteristiche delle città.
  • Mobilità. Si lavora da tempo, in area dolomitica, a diminuire l’accesso di auto private (e moto!) sui passi. La questione del treno in area dolomitica, ecc.
  • Turismo invernale. Si può migliorare l’offerta ma visti i cambiamenti climatici evitare nuovi impianti (richiesta esplicita della commissione UNESCO)
  • Equilibrio demografico. Interessa anche i rapporti fra le zone alte e i fondovalle.

Nota della redazione

Il Prof. Cesare Lasen, è un botanico feltrino molto noto e stimato. Ha servito come primo presidente del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi ed è membro del Comitato scientifico della Fondazione Dolomiti Unesco. Nella sua lunga attività di botanico Lasen ha pubblicato più di 240 testi scientifici, corollario di una vasta attività accademica e divulgativa. La sua passione lo porta a occuparsi di studi ecologici e applicativi, ma in particolare dei temi connessi alla conservazione della natura e della valutazione della qualità e dell’impatto ambientale. 

 

Fonti

Acqua e crisi climatica: siccità e inondazioni travolgono gli ecosistemi e la stabilità sociale

​​I valori del paesaggio vegetale delle Dolomiti. Il rischio clima dopo Vaia

 

Fonti immagini

Cesare Lasen, Comitato Scientifico Fondazione, in un film a lui dedicato

Imagine Servizi ecosistemici